I percorsi decisionali non seguono più una linea retta, ma un ecosistema di esperienze
Il concetto di funnel appartiene a un’epoca in cui il processo d’acquisto era sequenziale e prevedibile. Oggi i customer journey sono frammentati, ciclici, personali. In questo articolo esploriamo come si stanno trasformando e cosa cambia per chi progetta comunicazione e strategia.
Per anni abbiamo visualizzato il percorso d’acquisto del cliente come un imbuto: dall’attenzione alla conversione, attraverso fasi ben definite. Il modello del funnel ha semplificato il marketing, offrendo una mappa chiara — ma oggi quella mappa non descrive più il territorio.
I customer journey moderni non sono lineari, e a volte non sono nemmeno prevedibili.
Sono fatti di scoperte casuali, ritorni improvvisi, pause inattese. Un utente può iniziare il suo rapporto con un brand da un articolo letto per caso, continuare attraverso una newsletter ignorata per mesi, e decidere di agire dopo aver ascoltato un commento durante un evento.
Il percorso non segue una logica industriale, ma somiglia più a una relazione personale: fatta di contesti, emozioni, momenti.
Nel tempo del digitale maturo, comunicare significa riconoscere questa complessità. Non si tratta più solo di costruire un flusso ben progettato: si tratta di essere presenti nei punti giusti, nel modo giusto, con intenzione. Non si accompagna più un utente verso una conversione: si costruisce uno spazio di fiducia in cui quella decisione possa maturare.
La fiducia, appunto. È diventata il vero indicatore da osservare. Oltre le metriche immediate, oltre le performance di singoli post o annunci, ciò che conta è il capitale relazionale che un brand — o un professionista — riesce a costruire. Quel capitale non si ottiene con uno script, ma con coerenza. Con contenuti che parlano la stessa lingua, con un tono che non cambia a seconda della piattaforma, con risposte puntuali e vere. È una questione di tempo, ma anche di profondità.
Fiducia non è solo il risultato di una buona esperienza. È la somma silenziosa di segnali coerenti nel tempo.
Misurare la fiducia è difficile, perché spesso non si manifesta esplicitamente. Ma ci sono indicatori deboli che parlano chiaro: utenti che ritornano anche se non convertono subito, contenuti che vengono citati anche senza essere linkati, mail che ricevono risposta anche dopo settimane. Sono segnali che richiedono ascolto e capacità di lettura qualitativa. Ma soprattutto, richiedono di spostare il focus dalla performance all’impatto.
In questa nuova logica, parlare di “esperienza cliente” ha poco senso se lo riduciamo a un’interazione singola. Serve invece pensare a una esperienza distribuita, frammentata ma coerente, in cui ogni punto di contatto sia portatore di senso. Un sito, un’email, una slide condivisa: tutto contribuisce a quella sensazione sottile che chi è dall’altra parte percepisce. La sensazione che qui c’è qualcosa — o qualcuno — di affidabile.
Costruire un’esperienza distribuita significa progettare ogni touchpoint come se fosse l’unico: il post social, il primo scambio via email, la sezione “about” del sito. Tutto deve raccontare la stessa storia, riflettere la stessa intenzione, offrire un senso compiuto anche fuori dal flusso. Questo approccio richiede più energia nella fase di progettazione, ma rende ogni interazione più densa, più memorabile. Ed è lì che nasce la differenza.
Il problema di chi ragiona ancora in logica di funnel è che cerca di forzare il cliente dentro un tracciato. Ma l’utente oggi è abituato a muoversi secondo logiche proprie, a cercare, a confrontare, a interrompere e riprendere. I modelli mentali non sono più lineari. E questo ci impone di ripensare non solo come comunichiamo, ma anche cosa consideriamo “successo”.
Una conversione, in questo contesto, non è più un clic o una vendita. È il risultato di una risonanza: l’utente si riconosce, si fida, decide. E spesso lo fa quando noi non lo vediamo. Dietro le quinte. Lontano dai report. È il tipo di decisione che nasce più da ciò che abbiamo costruito nel tempo che da ciò che abbiamo pubblicato ieri.
Pensare al customer journey in termini relazionali significa anche cambiare il nostro modo di misurare. Non tutto è tracciabile, ma non per questo è irrilevante. Un consiglio dato in una call, una condivisione in un gruppo privato, un commento lasciato a distanza di mesi: ogni segnale è parte di un dialogo più ampio. Serve imparare a leggere ciò che non è immediatamente visibile. Non tutto ciò che conta si misura in tempo reale.
La conseguenza? Iniziare a progettare non più “percorsi”, ma ambienti. Creare contenuti che abbiano valore anche se presi fuori contesto. Costruire asset propri — come una newsletter, un archivio editoriale, una knowledge base — che permettano all’utente di costruire il suo percorso, senza essere guidato per forza. Questo approccio richiede coerenza, ma anche un certo grado di umiltà: non tutto si può controllare, e va bene così.
Oggi i migliori brand non spingono. Invitano. Non inseguono. Aspettano. Non convertono. Coltivano.
Ed è lì che si gioca la nuova partita della comunicazione: nello spazio in cui la relazione sostituisce il processo.
La vera domanda, allora, non è più “quante fasi ha il tuo funnel?”, ma:
“Che tipo di relazione stai costruendo con chi ti incontra, oggi — e domani?”
Conclusione
Se il tuo cliente non segue più un percorso lineare, perché la tua comunicazione dovrebbe farlo?
Forse è il momento di progettare esperienze, non passaggi.